“La domanda non è perché la dipendenza, ma perché il dolore.”
– Gabor Maté
Quando osserviamo una persona che vive una dipendenza – che sia da alcol, droga, affetto, pornografia, lavoro o controllo – ci viene spontaneo chiederci:
“Perché lo fa? Perché si fa del male?”
Ma questa domanda guarda al comportamento, non alla sofferenza. E ogni volta che ci fermiamo al “perché fa così”, rischiamo di ignorare una verità più profonda: non esiste dipendenza senza dolore.
Il legame invisibile: dolore → sofferenza → dipendenza
La dipendenza non nasce dal nulla. Non è frutto di debolezza, mancanza di volontà o cattiva educazione. La dipendenza è spesso una risposta estrema a una sofferenza invisibile, un tentativo disperato di sopravvivere al dolore.
Quel dolore può avere origini antiche:
- esperienze precoci di rifiuto, trascuratezza o abbandono;
- situazioni familiari instabili, violente o emotivamente fredde;
- traumi relazionali vissuti nel silenzio;
- una vergogna profonda e radicata che nessuno ha saputo vedere.
E quando il dolore non viene accolto, diventa sofferenza cronica. Una sofferenza che si incarna nel corpo, nei pensieri e nei legami. E per reggere questo carico emotivo, la mente cerca una via di fuga. La dipendenza è spesso quella via.
“Mi fa male, ma mi fa stare meglio”: la trappola della regolazione
Secondo Bessel van der Kolk, “il corpo accusa il colpo” quando la sofferenza non viene elaborata. E se il corpo non può calmarsi da solo, cercherà qualcosa di esterno che lo aiuti. È qui che nascono le condotte compulsive.
Come dice Janina Fisher, molti comportamenti che giudichiamo “autodistruttivi” sono in realtà strategie di auto-regolazione. La dipendenza diventa uno strumento per:
- anestetizzare il dolore,
- disconnettersi dalla sofferenza,
- recuperare per un attimo una sensazione di pace o piacere,
- avere almeno una cosa “certa” su cui contare.
Ma è una pace che dura poco, e lascia ferite ancora più profonde. Il dolore ritorna, spesso amplificato dalla vergogna e dall’isolamento. Ed è così che si crea il circolo vizioso: più soffro, più ho bisogno di dipendere da qualcosa.
La terapia non toglie la dipendenza: ne cura l’origine
Come psicologa, il mio compito non è togliere la dipendenza, ma riconoscere la funzione che ha avuto. Solo così possiamo creare insieme un’alternativa: trasformare la dipendenza in consapevolezza, e il dolore in guarigione.
Con strumenti come l’EMDR, il lavoro con la teoria polivagale, la psicoterapia del trauma relazionale, accompagno le persone in un processo di:
- regolazione emotiva sicura, senza bisogno di dipendere da qualcosa;
- integrazione delle ferite, senza negarle né subirle;
- riconnessione con il corpo, che smette di essere campo di battaglia;
- riscrittura del proprio valore personale, libero dalla vergogna.
Guarire significa trovare un nuovo modo di vivere il dolore
Non esiste guarigione autentica senza attraversare la sofferenza da cui la dipendenza è nata. Ma farlo in uno spazio sicuro, senza giudizio, cambia tutto.
Perché lì dove qualcuno ti ha detto “sei sbagliato”, la terapia ti dice:
“Tu stai sopravvivendo come puoi. Ora impariamo insieme a vivere davvero.”
Non chiederti perché la dipendenza.
Chiediti perché il dolore.
E datti finalmente il permesso di curarlo.