Negli ultimi vent’anni, migliaia di donne provenienti da Paesi dell’Est Europa, in particolare dalla Romania, hanno intrapreso percorsi migratori verso l’Italia per lavorare nel settore dell’assistenza domiciliare. Spesso impiegate come badanti, vivono per lunghi periodi in condizioni di isolamento, con orari prolungati e in assenza di tutele contrattuali adeguate. A fronte di questo impegno, il prezzo psicologico pagato si è rivelato significativo.

Per descrivere le conseguenze emotive e fisiche riscontrate in queste donne una volta rientrate in patria, è stato coniato il termine “Sindrome Italia”. Il concetto è stato introdotto nel 2005 da specialisti ucraini, ma ha trovato ampia diffusione e sistematizzazione clinica soprattutto in Romania, grazie al lavoro svolto presso l’Istituto Psichiatrico Socola di Iaşi.

La “Sindrome Italia” è definita come una condizione psico-fisica complessa, che si manifesta attraverso sintomi quali depressione, ansia, insonnia, apatia, difficoltà relazionali e, nei casi più gravi, episodi dissociativi o sintomi psicotici. Si tratta di una risposta disfunzionale a uno stress prolungato, spesso non riconosciuto né elaborato, che deriva dall’aver vissuto per anni in una posizione di forte sbilanciamento relazionale: prendersi cura degli altri, senza ricevere cura.

Sul piano psicologico, il fenomeno può essere interpretato come una forma di trauma cumulativo. Secondo Janina Fisher (2017), l’esposizione prolungata a condizioni di deprivazione affettiva, mancanza di riconoscimento e obbligo di adattamento costante, può condurre a una compromissione significativa della regolazione emotiva e dell’identità personale. Bessel van der Kolk (2014) sottolinea come, in assenza di opportunità per elaborare e condividere il dolore, il corpo stesso finisca per “registrare” il trauma, trasformandolo in sintomi persistenti sul piano sia psichico che somatico.

In questo contesto, la sindrome non rappresenta solo una questione clinica individuale, ma un indicatore di sofferenza sociale legata alla migrazione di cura e al mancato riconoscimento del carico emotivo che essa comporta. Il ritorno in patria, lungamente atteso e idealizzato, diventa spesso il momento in cui le tensioni represse emergono, rivelando il peso accumulato in anni di invisibilità.

Una storia come tante: Maria

Maria ha 56 anni. Ha vissuto e lavorato in Italia per 13 anni, badando prima a una donna con Alzheimer, poi a un uomo tetraplegico. Viveva nella casa in cui lavorava, senza orari fissi, sempre pronta a rispondere a una chiamata notturna. Le pause erano poche, i giorni liberi quasi inesistenti. Durante quegli anni ha visto crescere i suoi nipoti solo in foto. Ha mandato denaro a casa, costruito una casa che non ha mai abitato.

Quando è rientrata in Romania, non ha trovato la gioia che immaginava. Si è sentita fuori posto. I suoi figli erano diventati adulti con abitudini diverse, i legami affettivi si erano raffreddati. Iniziò a dormire poco, a isolarsi, a piangere senza motivo. Il medico di base la indirizzò a un centro psichiatrico dove le fu diagnosticata una forma di depressione reattiva. Nessuno, fino a quel momento, aveva dato un nome a quel dolore.

Interventi psicologici possibili

Il trattamento di questo tipo di disagio può essere affrontato con percorsi psicologici mirati e flessibili. In molti casi, è possibile ottenere benefici significativi anche con interventi non necessariamente prolungati. L’approccio terapeutico viene adattato alla persona, valorizzando le risorse individuali e facilitando l’elaborazione del vissuto. Spesso, un lavoro mirato consente di ritrovare equilibrio, riconnettersi con la propria identità e recuperare un senso di benessere personale.

 

La sindrome Italia non è solo un disturbo individuale: è il riflesso di una frattura sociale. Le donne che si prendono cura degli altri, spesso, dimenticano sé stesse. Ma prendersi cura di sé è possibile. È necessario.

Offro colloqui brevi, flessibili e accessibili, anche online, per chi ha vissuto l’esperienza del lavoro di cura e sente il bisogno di ritrovare sé stessa.

“Non sei sola. E non è mai troppo tardi per tornare a respirare.”

Riferimenti bibliografici

  • Fisher, J. (2017). Healing the Fragmented Selves of Trauma Survivors. Routledge.
  • Shapiro, F. (2018). Eye Movement Desensitization and Reprocessing (EMDR) Therapy: Basic Principles, Protocols, and Procedures.
  • Seligman, M. E. P. (2006). Psicoterapia positiva.
  • Van der Kolk, B. (2014). The Body Keeps the Score: Brain, Mind, and Body in the Healing of Trauma.
  • Istituto di Psichiatria Socola, Iași (2005-2024). Dati clinici e osservazioni su disturbi psichiatrici legati al rientro migratorio.